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Léa: Pittore autodidatta, professore della HEAD di Ginevra, ora lasci la Commissione federale d'arte dopo otto anni di attività. Una delle missioni essenziali del Concorso svizzero d'arte è quello di mettere in luce le migliori posizioni artistiche del momento. Al contempo, la Commissione ha sempre voluto ricompensare gli artisti i cui nomi non figurano necessariamente nelle short list o tra i top 100. Quale visione ti ha guidato e quale accento hai voluto mettere nei dibattiti della Commissione?

Jean-Luc: Ho avuto la fortuna, nel corso di questi otto anni, di essere in sintonia con i vari membri della Commissione. Il nostro lavoro sulla situazione dell'arte plastica è molto evoluto. Da semplice giuria, ora ci occupiamo molto di più della riflessione sui repentini cambiamenti della poli- tica culturale della Confederazione. La qualità e la scoperta sono i due punti sui quali personalmente mi sono concentrato. Per natura sono aperto a tutte le forme artistiche e questo mi ha facilitato nei rapporti con gli altri membri della Commissione e ci ha portato a ricompensare, attraverso i premi, artiste e artisti in tutti gli ambiti di espressione, senza eccezione.

Léa: Si parla molto degli effetti del premio sulla carriera. Come artista hai ricevuto anche tu più volte la «borsa federale» e, dal 2007, hai fatto parte della giuria del concorso. Che cosa ti ha sorpreso passando dall'altra parte dello specchio? E che cosa è cambiato per te una volta diventato membro della giuria? Le persone hanno un altro atteggiamento nei tuoi confronti?

Jean-Luc: Il senso di responsabilità e l'essere al servizio della comunità. Essere artisti e giudicare i colleghi, gli amici è un esercizio spiacevole e difficile, perché si è sempre coinvolti affettivamente. E questo ci distingue dagli storici dell'arte e dai curatori, che hanno un rapporto più distaccato, ma sono anche più sollecitati per la loro funzione. La mia natura discreta mi ha in qualche modo protetto e non ho mai notato dei cambiamenti di comportamento nei miei confronti.

Léa: L'anno prossimo sarà pubblicato un libro sui tuoi taccuini. Il Museo Jenisch sta attualmente scannerizzando centinaia di pagine. Puoi svelarci qualcosa di questo progetto?

Jean-Luc: Il Museo Jenisch ha acquistato l'anno scorso i miei taccuini, tredici in tutto, che coprono il periodo dal 1989 ad oggi. Sono sia album da disegno, collezione di immagini, archivio sia diario. Julie Enckell Julliard, direttrice del museo, e Lionel Bovier della casa editrice JRP Ringier hanno deciso di pubblicarli, non tanto come fedele facsimile ma piuttosto come libro ­illustrato. È un progetto molto ambizioso che mi riempie di gioia e al contempo mi fa una certa paura per le sue dimensioni - più di 1200 pagine - e perché mette a nudo la mia intimità.

Léa: Essere artista ha un effetto liberatorio. Mi hai parlato di un viaggio di gioventù negli Stati Uniti. C'è stato nella tua vita un momento chiave?

Jean-Luc: Effettivamente c'è stato un momento chiave, dopo mesi alla ricerca di me stesso, fatta di viaggi e di vita in comuni. Nel 1974 degli amici mi hanno fatto provare l'LSD e per tre giorni e tre notti ho percepito il mondo sotto forma di vibrazioni, con migliaia di piccole linee. In quel momento, un altro amico, che in seguito è diventato professore di storia dell'arte, trovandomi disorientato, mi ha portato una penna, dell'inchiostro di china e della carta. E così nel luglio di quarant'anni fa ho realizzato i miei primi disegni e ho deciso di diventare artista.

Léa: Oltre agli artisti che tu segui alla HEAD, visiti anche innumerevoli mostre nel corso di escursioni-maratona di tutto rispetto. Questa conoscenza della scena svizzera ha arricchito i dibattiti della giuria degli Swiss Art Awards. Artisticamente parlando, durante questi otto anni, hai avuto qualche colpo di fulmine?

Jean-Luc: Senza esitazione, i video di Pauline Boudry e Renate Lorenz.

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Jean-Luc Manz